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La Facilitazione del processo decisionale orientato al consenso
(testo con licenza CC BY-SA)
Individui e gruppi (di qualsiasi tipo) sono costantemente impegnati nella gestione del rapporto con quanto accade dentro e fuori di loro. Ciò implica un continuo processo decisionale, una sorta di riunione permanente. Con la metodologia del consenso (MC) tale processo è orientato al conseguimento di accordi che tutte le parti si impegnano a rispettare e a fattivamente (ma non sempre necessariamente) sostenere, senza ricorrere al voto. Per raggiungere questo fine, questo genere di accordi chiamato ‘consenso’, il sistema (individuo, gruppo, società) impiega un vasto repertorio di procedure, tecniche, strumenti che sostanziano la Facilitazione del processo decisionale. Dunque la Facilitazione riguarda qualsiasi intervento di ordine metodologico o inerente la gestione del processo decisionale.
Per esempio: darsi il turno nella parola, non interrompere chi parla, riprendere chi si dilunga o va fuori tema, fissare e ricordare i tempi della discussione, strutturare il contesto in modo da disporsi in cerchio o in altri modi che si presume possano agevolare un certo tipo di interazione tra i partecipanti, prendere appunti alla lavagna, esercitare forme di ascolto attivo, proporre un sondaggio di opinioni o la verifica del consenso su una proposta, dividersi in sottogruppi, proporre un gioco ice-break, un’analisi swot o un brain-storming…
È evidente che tutte queste azioni, di varia complessità, non riguardano direttamente i contenuti o il merito delle questioni all’ordine del giorno su cui decidere, bensì servono (almeno nelle intenzioni, perché gli effetti sono sempre da valutare) a facilitare le diverse fasi del processo decisionale, e dunque sostanziano, sono la Facilitazione. (Se t’interessa il capitolo che tratta il rapporto tra intenzioni, scopi ed effetti della Facilitazione, ne parlo qui).
Contenuto e Processo
Pensiamo ad un gruppo che si riunisce per discutere e decidere su una serie di punti all’ordine del giorno. Il nostro gruppo dovrà certamente fare i conti con proposte che riguardano i contenuti specifici della discussione (per esempio se investire risorse ed energie in un’azione piuttosto che in un’altra, come risolvere un problema organizzativo, ecc), ma dovrà occuparsi anche di proposte che riguardano la gestione del processo decisionale (per esempio come regolare turni e tempi degli interventi e cosa succede se qualcuno si dilunga superando i limiti prestabiliti o va fuori tema, stabilire se sia o meno il caso di prendere appunti alla lavagna, dividersi in sottogruppi di approfondimento, se usare il voto per formalizzare gli accordi oppure altre modalità, ecc). Il riconoscimento della sostanziale differenza e del complesso rapporto tra il piano dei contenuti e quello del processo porta ad interessarsi della Facilitazione del processo decisionale (anche chiamata Facilitazione delle riunioni, o della comunicazione, o semplicemente Facilitazione).
Sul piano dei contenuti ogni gruppo ha il suo specifico ambito di competenza, che ne caratterizza l’identità (organizzazioni che lavorano su temi ambientali, altre che promuovono il commercio equo, la violenza sulle donne, ecc); invece sul piano del processo tutti i gruppi condividono gli stessi problemi: in che modo discutiamo ciò di cui discutiamo? In che modo arriviamo a costruire accordi e decidiamo? In che modo gestiamo le eventuali tensioni emotive e i conflitti?
Impossibile non comunicare, impossibile non facilitare
In base a queste premesse, la Facilitazione risulta sempre presente nella dinamica di un incontro. Pertanto più che domandarsi se sia o meno il caso di facilitare le proprie riunioni, serve mettersi d’accordo se farlo in maniera esplicita oppure lasciarlo implicito. Infatti si può anche evitare di ricorrere a dei Facilitatori, cioè quelle figure interne o esterne al gruppo che vengono formalmente incaricate di svolgere un determinato ruolo (dal semplice tenere i tempi e dare la parola a chi si è prenotato, all’azione più complessa del riformulare l’intervento di un partecipante), ma non si può evitare in alcun modo che i partecipanti esercitino di fatto funzioni legate alla gestione del processo – cioè facilitare.
La Facilitazione non si può impedire, perché è un processo comunicativo che giocoforza coinvolge tutti i presenti ad una riunione. Inoltre, per queste ragioni, il potere di facilitare la riunione non può nemmeno essere completamente affidato o delegato alle figure che se ne prendono cura formalmente, ovvero: la Facilitazione non coincide mai con la sola azione dei Facilitatori.
Scenari
Immagina un gruppo di una decina persone, che inizia la discussione di un punto all’ordine del giorno sull’onda di un buon clima relazionale, senza però aver condiviso alcuna regola od orientamento metodologico. Che succederà se qualcuno durante la riunione terrà a lungo la parola, magari ripetendosi o andando fuori tema? Ebbene, basta che una partecipante intervenga per richiamare l’attenzione al tempo che passa, o per ricondurre il discorso nell’ambito prescelto, quindi con interventi sul piano del metodo e non dei contenuti, per configurare un’azione tipica della Facilitazione – cioè esattamente quello che avrebbe fatto un facilitatore formale. Cose del genere accadono sempre – e ci sarà un motivo…
Dunque, chi ha dato a quella partecipante lo speciale potere d’influenzare (limitare, contenere, ricondurre) l’intervento di un altro? Quel membro del gruppo sembra fondare il suo intervento di metodo sulla base di una regola che, se fosse stata esplicitata, suonerebbe più o meno così “chiunque nel gruppo può intervenire per regolare l’intervento di un partecipante che ha la parola se, a suo giudizio, quel partecipante sta prendendo troppo tempo, o si ripete, o va fuori tema”. Solo che una simile regola non è stata stabilita, quindi: quali conseguenze avrà quell’intervento, specialmente se reiterato, sulla trama delle relazioni interne, sulla fiducia reciproca, sul clima, e in definitiva sui contenuti e sulla qualità delle decisioni?
D’altro canto, di fronte alla medesima situazione (qualcuno che tiene a lungo la parola, magari ripetendosi o andando fuori tema), anche qualora il gruppo restasse in silenzio lasciando al membro di turno la libertà di esprimersi come vuole, senza interruzioni, nella speranza che sappia riprendersi da solo, verrebbe a configurarsi un’azione tipica della Facilitazione. In questo caso sarebbe il silenzio del gruppo l’azione di ordine metodologico, che implicitamente sembra sostenere la regola “qui chi prende la parola può parlare quanto ritiene giusto e dire quello che vuole, nessuno lo interromperà, perché noi ci fidiamo della sua capacità di autoregolarsi”. Bene: ma chi e come ha stabilito una simile regola? Tutti conosciamo gli effetti di quel silenzio quando quella regola non è stata concordata – dopo un po’ i corpi e i volti dei silenziosi partecipanti si tendono, comunicando non verbalmente e non senza giudizio a chi ha la parola che sarebbe meglio se terminasse.
Non darsi delle regole non vuol dire non seguire delle regole
Sappiamo che non darsi delle regole non vuol dire non seguire delle regole, bensì seguire regole di cui non si è consapevoli (come individui e/o come gruppo). Ed è più libero chi segue regole che conosce, o chi, credendosi libero, segue inconsapevolmente regole che non conosce?
Come insegna la pragmatica della comunicazione umana, la faccenda è molto importante, perché determina il benessere dei singoli partecipanti e il clima organizzativo, nonché l’efficacia dell’azione del gruppo verso l’esterno.
In conclusione, se da un lato è possibile scegliere (in genere implicitamente) di non avere delle Facilitatrici formali, cioè quelle figure che nel gruppo svolgono esplicitamente e consensualmente funzioni legate al metodo (e di conseguenza è anche possibile non avere una Facilitazione formale, cioè la Facilitazione propriamente intesa), dall’altro tale scelta non impedirà ai membri del gruppo (in genere i membri più autorevoli o i leaders) di agire metodologicamente, esercitando di fatto e al di là delle buone intenzioni un importante potere di orientamento e di influenzamento.
Crescere insieme attraverso regole condivise
Le scelte metodologiche influenzano profondamente il prodotto finale di un incontro, un prodotto molto più ricco e complesso delle sole decisioni formali – si pensi agli effetti sulla fiducia tra i membri, sulla motivazione personale, sul clima organizzativo, sull’identità e sul senso di appartenenza al gruppo.
Le scelte di metodo riguardano le forme (della comunicazione) attraverso cui i membri esercitano il potere all’interno del gruppo. Aldilà delle belle parole e delle buoni intenzioni, è in queste queste scelte che si manifestano i valori, i principi, l’etica che anima il gruppo. Ed è precisamente su questo piano che si gioca e si costruisce la democrazia: chi e come stabilisce le regole del gioco? In che modo vengono fatte rispettare tali regole? Come viene gestito il rapporto con chi non le rispetta (la gestione del conflitto)?
Tutto questo vale per il consiglio di amministrazione di una cooperativa o di una multinazionale, un collegio docenti, un’assemblea condominiale o una famiglia. E certamente vale per l’individuo, un sistema unitario composto da una moltitudine di ‘parti di sé’ che costituiscono la sua famiglia o comunità interiore, parti di sé in riunione permanente per gestire il complesso e naturalmente conflittuale rapporto col mondo interno/esterno – la Facilitazione è sempre un processo Inside/Out.
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