Estratto dal Quaderno n.1 – 2014 ISSN: 2038-9884
METODO DEL CONSENSO, CULTURA DELLA PACE E PROCESSI PARTECIPATIVI
Pubblicazione periodica a cura dal Centro Studi Difesa Civile www.pacedifesa.org
(di Roberto Tecchio – testo con licenza CC BY-SA)
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Legenda: il testo che segue è scritto in una forma linguistica che cerca di rispettare la parità di genere. In proposito le soluzioni che sperimento sono:
a) l’uso del femminile con lo stesso significato che la lingua italiana attribuisce di norma al maschile per indicare l’insieme dei generi. Quindi durante la lettura si troveranno, all’incirca alternate al ‘normale’ maschile, espressioni come “volontarie”, che include i volontari, “la facilitatrice” che significa anche il facilitatore, “le partecipanti” che vuol dire anche i partecipanti, “sé stessa” che implica sé stesso;
b) l’uso della maiuscola, quando nel discorso l’indicazione del genere è necessaria per capire a chi ci si sta riferendo – di questo trovi un esempio qui sotto.
Mi auguro che l’eventuale spaesamento o fastidio durante la lettura, provocati dall’uso scorretto di alcune regole della grammatica italiana al fine di provare a correggere lo scorretto carattere maschilista della nostra lingua ‘madre’ (non suona ironico?), diventino occasione per mantenere viva l’attenzione sugli effetti sociali pesantissimi della dominante cultura maschilista, che opprime non solo le donne, ma anche il femminile negli Uomini – e con ciò gli Uomini stessi.
Premessa
La ricognizione storica che segue, certamente incompleta, costituisce per quanto ne so il tentativo più aggiornato in materia (2011). L’intento è quello di valorizzare tra le tante esperienze che hanno permesso al Metodo del Consenso (MC) di diffondersi in Italia, almeno quelle più significative di cui sono a conoscenza e che in alcuni casi sono state già oggetto di pubblicazione.
È soprattutto grazie al Centro Studi Difesa Civile, la Rete di Formazione alla Nonviolenza, la campagna di Obiezione di Coscienza alle Spese Militari e la segreteria del Progetto nazionale per la Difesa Popolare Nonviolenta, organizzazioni nelle quali in diversi momenti tra il 1988 e il 1998 sono stato attivo, che ho potuto vivere in prima persona buona parte di quanto racconto.
Gli anni ’80: l’arrivo in Italia del MC
Nel 1985 il prof. Alberto L’Abate, docente di metodologia della ricerca sociale presso l’Università di Firenze, pubblica “Addestramento alla Nonviolenza”, un testo che raccoglie alcune esperienze di lotta sociale condotte in Italia col metodo nonviolento. Nell’opera si trova un’ampia spiegazione teorico-pratica del MC e della Facilitazione secondo le linee guida a quel tempo proposte dalle trainers della comunità olandese Meth Medura. Il MC e la Facilitazione si erano infatti rivelati strumenti fondamentali per progettare e attuare alcune delle azioni di lotta nonviolenta che nei primi anni ottanta vennero realizzate in Europa e nel nostro paese. In particolare, L’Abate si sofferma sull’esperienza del Campo Internazionale per la Pace a Comiso (Rg), dove la metodologia formativa impiegata per prepararsi all’azione diretta nonviolenta, chiamata “metodo training” proprio per evidenziarne i tratti fortemente partecipativi ed esperienziali, provocò così tanto entusiasmo che presto venne costituendosi in Italia una rete di attiviste determinate a promuoverne l’uso (Euli, Puddu, Sechi, Soriga, 1992).
Tra le esperienze e i protagonisti di allora, un posto di rilievo spetta senza dubbio alla famosa Casa per la Pace di S.Gimignano, animata proprio dalla famiglia L’Abate, che dal 1983 sarà per un decennio in Italia il principale luogo di formazione alla nonviolenza attuata con metodologia esperienziale.
Un altro soggetto che prende vita in quegli anni è la rete chiamata Forze Nonviolente di Pace, che nell’estate del 1987, a Boves (Cn), organizza un esperimento di difesa popolare nonviolenta di portata nazionale, coinvolgendo circa centocinquanta partecipanti provenienti da tutta Italia che per l’occasione si prepararono col metodo training (aa.vv. 1995).
La stessa rete, nel 1989 fu tra i protagonisti della Campagna di lotta contro la Mostra Navale (bellica) di Genova, un importante evento di esposizione e vendita di armamenti che la città organizzava da oltre vent’anni. Gruppi di attivisti in diverse regioni italiane si preparano per mesi all’azione diretta nonviolenta che sarebbe avvenuta nei giorni della Mostra, e un punto fondamentale della formazione era l’uso del MC per facilitare le proprie riunioni e per decidere a vari livelli assembleari anche in situazioni di emergenza. Questi “gruppi di affinità” si aggiunsero alle realtà locali genovesi giocando un ruolo molto importante che contribuì al successo della Campagna: il comune di Genova decise di non programmare più in futuro la mostra bellica (Euli e Forlani, 2002).
Gli anni ’90: il MC cresce
Da quelle esperienze di formazione finalizzate a sostenere azioni di lotta sociale con metodi nonviolenti nascerà nel 1990 la Rete di Formazione alla Nonviolenza (RFN). Questo soggetto, formalmente costituito, realizzerà nell’arco di otto anni, anche grazie ai contributi economici provenienti dalla Campagna di Obiezione di Coscienza alle Spese Militari, moltissime iniziative in tutto il paese, rappresentando la maggiore forza sociale tesa alla diffusione dei metodi di lotta nonviolenta e delle pratiche di gestione costruttiva dei conflitti e dei processi decisionali – cioè del MC e della Facilitazione (Euli, Sechi, Soriga, 1999).
Tra le numerosissime iniziative, ricordo la collaborazione della RFN con Beati i Costruttori di Pace, nel 1992, prima per la preparazione dei “gruppi di affinità” che avrebbero preso parte alla prima missione di pace a Sarajevo (Eandi, Euli, 1995), e poi la facilitazione dell’assemblea di valutazione al ritorno in patria “delle cinquecento” volontarie che parteciparono alla missione – all’incontro erano in circa trecento. Naturalmente in tutte quelle situazioni si attuavano e inevitabilmente si sperimentavano, non senza errori e voci critiche, la Facilitazione e il MC. Le assemblee stesse della RFN erano un interessantissimo luogo di sperimentazione, così come in quegli anni lo furono le assemblee legate al Progetto Nazionale per la Difesa Popolare Nonviolenta, un luogo di coordinamento che grazie a parte dei fondi raccolti con l’obiezione fiscale alle spese militari poteva sostenere le principali realtà italiane impegnate nel costruire alternative civili e nonviolente alla difesa militare armata.
In quegli anni fu di grande importanza anche il lavoro del gruppo italiano delle PBI (Peace Brigades International), che sin dalla sua fondazione (1988) aveva inserito il MC nel proprio statuto. Il gruppo, che attuava il metodo secondo le modalità apprese nelle assemblee internazionali dell’organizzazione stessa, portò un contributo fondamentale all’evoluzione del MC in Italia anche grazie alla traduzione di testi dall’inglese, in particolare il manuale di Butler e Rothstein (Butler e Rothstein, 1987).
Tralasciando le tante iniziative di formazione realizzate a livello locale e nazionale, la cui memoria documentale è per la gran parte delocalizzata e forse dispersa (esistevano e presumibilmente esistono ancora parziali archivi personali, tra cui il mio), arriviamo alla fine degli anni ’90, dove avviene un salto di qualità nella pratica e nella diffusione del MC. L’occasione viene data quando rappresentanti del Commercio Equo e Solidale decidono di gestire col MC le due assemblee nazionali che avrebbero dovuto condurre alla stesura della Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale. La positiva esperienza segna l’avvio di una significativa collaborazione con la nascente Associazione Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale, che inserirà nel proprio statuto il MC, e porta alla stesura anche di un nuovo testo sul MC a distanza di tredici anni da quello pubblicato da L’Abate (Tecchio, 2001). Quel breve scritto, nato semplicemente per preparare l’assemblea alla ‘nuova’ metodologia che avrebbe adottato per formalizzare gli accordi e decidere senza ricorrere al voto, troverà grazie ad internet ampia diffusione diventando uno dei riferimenti negli anni a seguire per quanti interessati a conoscere e a sperimentare il MC (Ceri, 2005).
Sul finire del secolo incontriamo un altro importante evento, la costituzione della Rete Lilliput, un soggetto nazionale che collega realtà che vanno dalle grandi organizzazioni fino alle singole cittadine sensibili ai temi della pace, della giustizia, dell’ambiente e dello sviluppo. La Rete organizzerà due importanti assemblee nazionali, nel 2000 e 2001, che saranno gestite ispirandosi al MC – e non a caso le figure chiamate a facilitare i momenti di confronto e decisionali provengono tutte dalla vecchia, anche se ormai formalmente sciolta, RFN (aa.vv. 2001).
Nel concludere questo excursus, visto che il nuovo millennio l’abbiamo toccato, registriamo anche la tristemente famosa manifestazione a Genova contro il G8, nel 2001: ancora una volta la rete ‘informale’ di trainers della RFN si mette a disposizione per preparare i “gruppi di affinità” orientati all’azione diretta nonviolenta che da tutta Italia si apprestano a partire – gruppi che però costituiranno solo una piccola parte della massa dei manifestanti (Euli e Forlani, 2002).
Il MC nel nuovo millennio: la diffusione delle metodologie partecipative e della facilitazione dei processi decisionali nella società
Se si guarda alla sostanza del MC, ai suoi principi e alle sue finalità, cioè la diffusione del potere nella società e la conseguente partecipazione responsabile e creativa di tutti alla gestione di quel potere, si vede come il lavoro sociale che punta a favorire la partecipazione delle cittadine al governo locale e alla cura dei beni comuni, realizzato oggi da numerosissimi soggetti sempre più professionalmente qualificati e istituzionalmente riconosciuti, vada nella stessa direzione anche se non lo si chiama MC (Bobbio, 2004, 2006). Ad esempio, alcune realtà romane che si occupano di mediazione sociale ed empowerment comunitario, con le quali ho collaborato negli ultimi anni, pongono la metodologia del consenso (anche se non viene chiamata così) addirittura come precondizione per poter lavorare nel territorio assieme alla gente, ben sapendo che la gestione trasparente e massimamente partecipata del potere (chi decide cosa e come) è la base per ricostruire legami sociali, senso di appartenenza ad un luogo e fiducia nella possibilità di cambiare le cose http://mediazionesocialecomunita.blogspot.it/
Inoltre, bisogna considerare che quando si parla di “consensus building”, come spesso accade nel lavoro di importanti autrici nostrane che su questi temi si ispirano a rinomate scuole statunitensi, ci si sta riferendo precisamente al MC (Sclavi, 2006, 2007); e anche ogni volta che si parla di esperienze di mediazione e di gestione o trasformazione costruttiva dei conflitti, il consenso è precisamente la forma di accordo a cui puntano tutte queste pratiche (Galtung, 2008, 2013).
Stesso discorso va infine fatto per la “Facilitazione”, parola chiave indissolubilmente legata al MC e impiegata da tutti coloro che si occupano di processi partecipativi, decisionali e non solo, quale che sia la metodologia adoperata (De Sario, 2005 e 2006; De Luzenberger, 2008). In fondo io credo che proprio questo sia stato il grande merito dell’aver introdotto in Italia il MC: aver iniziato a veicolare all’interno di un’area sociale ‘sensibile’ l’idea e la pratica della facilitazione delle riunioni. Perciò io vedo nel lavoro oggi teso a diffondere la cultura della facilitazione dei processi partecipativi e decisionali un chiaro segno della presenza viva del metodo, poiché ogni metodo che punti a costruire il ‘consenso positivo’ (cioè il consenso come in queste pagine viene inteso) è di fatto un metodo del consenso.
Riferimenti
AA.VV. L’esperimento di Boves: un sociodrammatest per la D.P.N. Satyagraha Editrice 1995.
AA.VV.,La Rete di Lilliput. EMI 2001
Bobbio L., A più voci: amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi. Edizioni scientifiche italiane spa, 2004;
Butler C.T. Lawrence, Rothstein A., On conflict and consensus, 1987, traduzione italiana ed editing a cura di Peace Brigades International Italia, C. Banzato, L. Groppo, G. Turra, http://www.equistiamo.org/PDF/Manuale_metodo_del_consenso.pdf
Ceri P., “La democrazia dei movimenti: come decidono i no global”, Ed. Rubettino, 2005
De Luzenberger G., Open space technology. Guida all’uso. 2008.
De Sario P., Professione facilitatore. Le competenze chiave del consulente alle riunioni di lavoro e ai forum partecipati. Franco Angeli, 2005
De Sario P., Il facilitatore dei gruppi. Guida pratica per la facilitazione esperta in azienda e nel sociale. Franco Angeli, 2006
Eandi S., Euli E., Anch’io a Sarajevo, Satyagraha Editrice 1995
Euli E., Puddu S., Soriga A,, Sechi P., Viaggi in training, Satyagraha editrice, 1992
Euli, Soriga, Sechi, Reti di Formazione alla nonviolenza, Pangea 1999 .
Euli E. Forlani M., Guida all’azione diretta nonviolenta, Editrice Berti, 2002.
Galtung J., Pace pace con mezzi pacifici, 1996, Esperia
Galtung J., Affrontare il conflitto: trascendere e trasformare, Plus, 2008
Gandhi M.K., Teoria e Pratica della nonviolenza, Einaudi, 2006.
L’Abate A., Addestramento alla Nonviolenza, Satyagraha editrice, 1985
Sclavi M., Ascolto Attivo e seconda modernità. Rivista di Psicologia Analitica, 2005
Sclavi M. Foa V.: “Dal consenso alla cosche al consenso democratico “ introduzione a : Susan Podziba:
Chelsea Story. Come una cittadina corrotta ha riconquistato la sua democrazia, Milano, Bruno Mondadori, 2006;
Sclavi M., Romano S.: “Simulazioni e giochi di ruolo: per imparare a non credere nella fatalità delle conclusioni”, introduzione a Consensus Building Institute: Costruire una pace, Milano, Bruno Mondadori, 2007;
Tecchio R., in “Giovani e Pace: ricerche e formazione per un futuro meno violento. A cura di A. L’Abate, Pangea Edizioni, 2001.